Il JASIST (Journal of Association for Information Science and Technology) ha pubblicato nel marzo scorso un paper di un gruppo di ricerca della University of Texas di Austin, nel quale si sostiene che ogni crisi sanitaria globale, come l’attuale pandemia di covid-19, determina anche una grande crisi informativa. La ricerca ritiene che anche questo tipo di crisi va trattata come un’emergenza e che pertanto siano necessari di ulteriori studi, nuove strategie e azioni concrete.
La prima sfida è rappresentata dalla distorsione del sistema informativo. Un’emergenza globale come quella del covid-19 è in grado di produrre una tale sovrabbondanza caotica e incontrollata di informazioni che lo stesso OMS nel tentativo di definirla è dovuto ricorrere al neologismo ”infodemia”, ossia un fenomeno caratterizzato da una smisurata circolazione pandemica di informazioni non vagliate con accuratezza, spesso contraddittorie tra loro, capaci di fornire solo un quadro confuso e ansiogeno alla grande platea dei destinatari.
Va tenuto in considerazione, suggeriscono i ricercatori, che la crisi attuale è un fenomeno completamente nuovo, molto diverso, dal punto di vista dell’informazione, rispetto all’ultima importante pandemia verificatasi. In quel caso, correva l’anno 2002, e sempre dalla Cina, in quel caso dalla provincia delle Guangdong, si diffuse la SARS. Un evento inserito in un contesto tecnologico lontanissimo da nostro, neanche paragonabile con l’attuale ecosistema digitale globale che è subito diventato assordante cassa di risonanza planetaria della crisi covid-19.
Secondo il paper, sono i social media i vettori dell’attuale infodemia, i quali grazie alla loro velocità di diffusione possono facilmente trasformarsi in potentissimi strumenti di disinformazione di massa. Nello stesso tempo, si fa notare, la stessa rivoluzione digitale può anche giocare a nostro favore mettendo a disposizione alcuni potenti anticorpi: ad esempio le applicazioni di machine learnig e di intelligenza artificiale, tecnologie in grado di individuare ed etichettare automaticamente testi e immagini generati dalla disinformazione per poi bloccarli.
Non solo. È anche evidenziata l’importanza della diffusione, condivisione e integrazione delle informazioni a prescindere dalla provenienza dei dati. Le piattaforme e le infrastrutture di emissione delle informazioni, nel corso di crisi sanitarie, dovrebbero essere coordinate e/o supportate da professionisti dell’informazione e da quelle istituzioni che hanno come scopo l’organizzazione pubblica dell’informazione: associazioni professionali, organizzazione sanitarie nazionali, biblioteche pubbliche ecc. In questo modo si renderebbe possibile la creazione di una circolazione virtuosa delle informazioni tra medici, pazienti, ospedali, associazioni di volontari, famiglie ecc.
Questo approccio dovrebbe (soprattutto) valere anche per le big platform social come Whatsapp, Facebook, WeChat, Twitter ecc. Il paper suggerisce che l’impegno degli scienziati dell’informazione deve essere quello di progettare ambienti condivisi che nel caso di crisi sanitarie globali consentano di rendere interoperabili – per estrapolazioni finalizzate alla difesa della salute pubblica – gli enormi dataset delle big platform. A conferma dell’importanza dell’estrapolazione e utilizzo predittivo dei big data, si cita una ricerca retrospettiva riguardante una pandemia di influenza suina H1N1 verificatasi nel 2009 negli USA, nella quale si mostra come l’estrazione dei dati dalle piattaforme social media avrebbe consentito di prevedere con due settimane di anticipo l’esplosione della pandemia.
Le ondate di disinformazione prodotte da eventi eccezionali come crisi sanitarie globali, richiedono che le scienze dell’informazioni indichino anche azioni concrete da intraprendere. La ricerca della University of Texas, ne mette a fuoco almeno due: alfabetizzazione eHealth e digital divide.
Nelle emergenze pandemiche – come abbiamo visto in Cina a Wuhan e come stiamo vedendo con i lockdown nelle città di tutto il mondo – i cellulari spesso diventano il mezzo più utile sia per ricevere informazioni essenziali che per il contenimento dell’epidemia mediante apps per il tracciamento dei contatti. L’azione di alfabetizzazione – in questo caso mHealth, ossia basata su smartphone o tablet – è pensata per migliorare le abilità delle persone ad accedere, valutare e utilizzare le informazioni sanitarie digitali nel caso di assistenza per interventi medici da remoto e più in generale per essere in grado di prendere decisioni consapevoli.
Tuttavia, quando la gran parte delle informazioni essenziali vengono divulgate digitalmente, nasce il problema delle persone più vulnerabili, cioè di quelle che si trovano dalla parte sbagliata del digital divide: anziani e fasce sociali più deboli della popolazione. Questo è un altro campo d’azione fondamentale per gli scienziati dell’informazione, e in questo caso si tratta di offrire la collaborazione alle agenzie governative, alle associazioni di volontariato che operano sui territori, alle comunità in genere, per individuare i metodi giusti per raggiungere anche i gruppi più vulnerabili garantendo loro l’accessibilità e l’usabililità attraverso soluzioni low-tech.
Riaffermata – anche attraverso le varie soluzioni indicate – la necessità di divulgare, in caso di crisi sanitarie globali – informazione personali. Il paper non si sottrae ai delicati aspetti etici che comportano queste situazioni e in conclusione esorta tutti coloro che si occupano di scienze dell’informazione nel dare il loro contributo – nei limiti del possibile – per la protezione della privacy di tutte le persone coinvolte come pazienti, come pazienti sospetti o come contatti diretti tracciati nel corso dell’emergenza sanitaria.